martedì 22 aprile 2014

Dino Buzzati

MARZO 1949. Si scrive un giorno una riga così, perché viene spontaneo. Come si direbbe ahi per una botta. Passa del tempo e la si rilegge. Perdio, ma questo è bello. La si fa rileggere a un amico (e qui comincia il tradimento). «Bello» dice «perché non la fai pubblicare?» «Dici sul serio?» «Ma certo, io me ne intendo.» «E come vuoi che faccia?» «Così e così» lui spiega.
Si prova, si riesce. Lo leggono in giro. Dicono: buono, si farà. Farsi! Dopo quella riga se ne scrive un'altra, e poi un'altra ancora, tante, tante. Le pubblicano, le pagano, che bellezza. Solo che adesso non è più come dire ahi per una botta. In un certo modo è una cosa calcolata. Ogni volta che la punta della penna tocca la carta, in fondo c'è il pensiero di chi domani leggerà. È come un'ombra, costui, che ci guarda da dietro le spalle mentre scriviamo. E l'idea che sogghigni ci spaventa. Ora mi chiedo: se questo pensiero scomparisse, se sapessi che nessuno leggerà mai quello che faccio, che cosa scriverei? Le stesse cose d'oggi? Forza, abbi il coraggio di essere sincero. No: simili, ma non proprio queste. Oppure niente? Oppure è tramontato il tempo in cui si scriveva per assoluto bisogno personale? Oppure, vogliamo dire, non si farebbe più niente e tutto ciò che noi facciamo è falso?
(Dino Buzzzati, da In questo preciso momento, Mondadori)

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