giovedì 6 febbraio 2014

Il mare, ieri

Illustrazione di Ryan Lovelock
per la pubblicazione su Burp n.5.
Novembre 2010. Esce il n. 5 di Burp con all'interno il mio racconto Il mare, ieri.
Ve lo ripropongo di seguito.
Qui trovate, pronti da leggere on line, tutti i sei numeri usciti della rivista. Se non l'avete conosciuta all'epoca, dateci un'occhiata adesso.


Il mare, ieri
di Francesco Matteuzzi

– Ehi, Achab! Guardi il mare?
L’uomo scosse la testa, annoiato.
– Non dici niente?
– È maleducazione non rispondere, capitano!
– Dai, andiamo via.
– Ci si vede, Achab.
L’uomo sentì il motore che ripartiva e si allontanava, dietro di lui, fino a perdersi nel respiro delle onde. Vide i riflessi che si facevano più brillanti, il sole che era sceso quasi a pelo d’acqua e lo abbagliava. Pensò che non sarebbe riuscito a tenere gli occhi aperti se non avesse trascorso la sua vita in mare. Soprattutto al mattino, sulle rotte del nord, quando quella palla di fuoco sembrava esplodere sopra e sotto la chiglia. In quei momenti si era abituato alla luce, all’incerto brillio del sole sulla superficie.
Achab, che nome, poi. Preso di sana pianta da un libro di un Melville qualunque. Ma sì, lo prendessero pure in giro, lui, la sua barba e la gamba di legno. Si prendessero gioco di lui, che importava? Altre generazioni, più giovani... e i giovani non hanno il dovere di capire, solo di accettare e andare avanti.
Ma era poi vita, senza il mare? Gli capitava di chiederselo, a volte. In genere succedeva d’inverno, quando gli impedivano di uscire. Come se i temporali fossero mai stati un problema, per lui. Sciocchi. E invece no, al primo accenno di maltempo subito in casa, lui, la sua barba e la gamba di legno. Come un vecchio.
Dal suo primo imbarco, avrà avuto quattordici anni, aveva stretto un patto di fratellanza col ponte. Il legno delle assi, il parapetto, i boccaporti per sala macchine e stiva. E su, sulle sartie per lavorare alle vele, col suo corpo elastico e resistente, nel vento, sotto la pioggia. Negli uragani. Dio, quanti uragani aveva visto in vita sua, quanti l’avevano schiaffeggiato con raffiche di pioggia gelida, di quelle che ti strappano i vestiti che hai addosso e ti lasciano la pelle rossa come il tonno crudo. Di quelle che se non stai attento ti scagliano giù dall’albero fino in mare aperto, o addirittura ti schiantano sul ponte e ti ci lasciano a sanguinare finché qualcuno arriva e ti porta in coperta o finché il mare non ti reclama.
Sì, lui l’amava, il mare. E anche se da tempo non poteva più governare una nave, cercava sempre di tornare verso riva e si metteva lì, seduto sullo scoglio, la schiena appoggiata alla parete curva del faro. Anche il faro, già. Ci era entrato poco dopo aver perso la gamba in quel maledetto incidente. Scaraventato sul ponte, a sanguinare. Non proprio come Achab, quello vero.
E poi la vita al faro era facile, non c’erano gli enigmi della navigazione, non c’era il fascino dello spazio aperto, la libertà del niente intorno. Ma c’era il mare. Il mare con il suo canto. Come si fa a dormire senza quella ninnananna, quella voce materna che ti accompagna al sonno. Tra tutte le cose che aveva visto, e ne aveva viste, niente, niente era più sincero del mare. In fondo, non gliel’aveva certo presa a tradimento, la gamba. Non gliel’aveva sottratta senza prima avvertirlo. Lo stava dicendo già da un po’: sono arrabbiato. Sono furioso e mi scaglierò contro tutto ciò che incontro. E aveva incontrato la sua nave, e lui si era arrampicato fin sull’albero di trinchetto per occuparsi delle vele. E il mare, il temporale, l’aveva scagliato giù. Sul ponte, a sanguinare.
Diavolo, quanta luce faceva quel faro. Più di quella delle rotte del nord, al mattino. Non era male, stare lì, curare la lampada. Non come navigare, ma non male. Ma poi adesso chi li usa più, i fari? I congegni moderni riescono a far entrare un’imbarcazione nel porto anche nelle notti senza luna, al buio. E infatti sono anni che non c’è più nessuno, al faro. Strano, il destino. Inizi che si naviga solo lungo la costa, a vista, e poi arriva quel Pitea che come niente fosse si spinge oltre l’orizzonte e arriva fino a una terra nuova che poi chiameranno Islanda. E da lì parte tutto, inventano l’astrolabio, il solcometro e addirittura le carte nautiche. Finché qualcuno resta così affascinato dalla navigazione che inizia a scriverci sopra delle storie. Belle, quelle storie.
Che poi, lui l’aveva anche conosciuto, Melville, o come diavolo si chiamava, ma era stato molto tempo prima. Forse quando si era imbarcato con Shackleton, o forse prima ancora, nel periodo in cui aveva navigato con Henry Morgan nelle acque dei Caraibi. Quante passerelle, con Morgan. Passerelle e abbordaggi. Se l’avessero saputo, adesso, quei ragazzi. Se avessero sentito delle sue imprese, col pugnale tra i denti e la pistola in pugno. A sotterrare tesori e disegnare mappe con sopra una x.
Achab. Chissà quanto avrebbero riso i suoi vecchi capitani a sentirlo chiamare così. Achab. Se lo immaginava, il vecchio Caboto, che riposi in pace, che si piegava in due dando fiato a quella sua tipica risata singhiozzante che presto si propagava e contagiava tutto l’equipaggio. O ancora si immaginava Da Gama, il fiero Vasco, che scuoteva la testa senza nemmeno un commento lasciando che se la vedesse da solo, con quei ragazzi. In fondo, se erano stati loro i primi a navigare fino all’India non era certo perché il Capitano perdeva tempo in chiacchiere.
Il mare. Quanti ricordi. Se ci si metteva a pensare, sembrava quasi che fossero troppi per una vita intera. Lui, la sua barba e la gamba di legno.
Presto, lo sentiva, sarebbero tornati al mare.

E il mare lo sapeva.
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